Thursday, November 02, 2006

presupposti e organi

2. Il fallimento (artt. 1 – 156 L.F.). – Il fallimento è una procedura giudiziaria che si svolge nanti il tribunale del luogo ove ha sede l’impresa, il quale, in presenza di determinati presupposti, dichiara con sentenza il fallimento dell’impresa e apre la procedura.

2.1. I presupposti del fallimento (artt. 1 – 15 L.F.) – I presupposti della dichiarazione di fallimento sono sostanzialmente due:

a) la natura di imprenditore commerciale (privato e non piccolo) del debitore (presupposto soggettivo);

b) lo stato di insolvenza (presupposto oggettivo).

2.1.1. Il presupposto soggettivo. – A norma dell'art. 1, primo comma, L.F., lasciato pressoché inalterato dalla riforma, «sono soggetti alle disposizioni sul fallimento gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori». Da tale disposizione si desume che può essere assoggettato al fallimento solo l'imprenditore commerciale non piccolo e privato.

La riforma del 2006 ha ampliato il numero dei soggetti esonerati dalla assoggettabilità al fallimento, ridefinendo l'ambito soggettivo di applicazione dell'istituto: nell’art. 1, secondo comma, il legislatore ha fornito una nuova definizione di piccolo imprenditore (cfr. art. 2083 cod. civ.), fondata su parametri quantitativi, ovvero su valori patrimoniali, finanziari e reddittuali, adeguati all'attuale realtà economica ed imprenditoriale e che rispecchiano l'effettiva consistenza delle dimensioni dell'impresa e del patrimonio aziendale.

L'art. 1, secondo comma, L.F., novellato dal D.LGS. n. 5/2006, esonera dal fallimento l'imprenditore che, alternativamente:

a) ha effettuato investimenti aziendali per un capitale inferiore od uguale a trecentomila euro (si presume che tale dato debba risultare dall'attivo di bilancio al momento dell'eventuale dichiarazione di fallimento, sebbene esso non sia sempre di facile individuazione nelle società di persone e nelle imprese individuali);

b) ha realizzato ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo non superiore a duecentomila euro.

A partire dal 16 luglio 2006 (data di entrata in vigore del decreto di riforma), il soggetto che rientra in almeno uno dei due parametri indicati è dunque qualificabile, ai fini della applicazione della legge fallimentare, piccolo imprenditore e non è assoggettabile al fallimento o ad altra procedura concorsuale.

E' stata inoltre risolta la controversa questione della fallibilità delle piccole società commerciali, non più assoggettate al fallimento. Infatti, nella versione anteriore alla riforma, l'art. 1 specificava al secondo comma che in nessun caso potevano essere considerati piccoli imprenditori le società commerciali, includendole pertanto tra i soggetti fallibili. Il legislatore del 2006 ha eliminato tale inciso ed ha chiarito che la nozione di piccolo imprenditore coinvolge tutti «gli esercenti un'attività commerciale in forma individuale o collettiva».

Ancora, sono sottratti al fallimento:

- gli enti pubblici economici (art. 2093 cod. civ.);

- gli imprenditori agricoli (art. 2135 cod. civ.);

Gli articoli 10 e 11 L.F. stabiliscono che, entro l'anno dalla morte o dal ritiro dal commercio, l'imprenditore può ugualmente essere dichiarato fallito quando il presupposto dell'insolvenza è determinato durante l'esercizio dell'impresa.

Si tratta di due ipotesi distinte:

A) Imprenditore cessato

L'art. 10 L.F., modificato dalla riforma, prevede che «gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo».

La riforma del 2006 ha dunque dato soluzione ai problemi sorti in conseguenza della deficitaria formulazione del '42, la quale parlava genericamente di «cessazione dell'esercizio dell'impresa» e non considerava la cancellazione delle società.

Il secondo comma dell'art. 10 attribuisce tuttavia all'imprenditore individuale ed alle società che sono state cancellate d'ufficio (vale a dire quando, ai sensi dell'art. 2490, sesto comma, cod. civ., per oltre tre anni consecutivi non hanno depositato il bilancio annuale di liquidazione, nonché nei casi di cancellazione d'ufficio previsti dagli artt. 2 e 3 del D.P.R. 23 luglio 2004, n. 247: per l’imprenditore individuale: morte e irreperibilità dell’imprenditore; mancato compimento di atti di gestione per tre anni consecutivi; per l’imprenditore società di persone: irreperibilità presso la sede sociale; mancato compimento di atti di gestione per tre anni consecutivi; mancanza del cosice fiscale; mancata ricostituzione della pluralità dei soci entro 6 mesi; scadenza del termine di durata in assenza di proroga tacita) la possibilità di dimostrare il momento dell'effettiva cessazione dell'attività, qualora essa si sia verificata anteriormente alla cancellazione; pertanto se l’imprenditore fornisce tale prova, il termine di cui all’art. 10 L.F. decorre dalla data di effettiva cessazione e non dalla data della formale cancellazione.

B) Imprenditore defunto

L’imprenditore individuale può essere dichiarato fallito anche dopo la propria morte. L’effetto fondamentale del fallimento post-mortem è la separazione del patrimonio del defunto da quello dell'erede e la sua destinazione alla soddisfazione prioritaria dei creditori ereditari. La riforma ha lasciato sostanzialmente inalterata la disciplina del fallimento dell'imprenditore defunto (art. 11 L.F.). Tuttavia, al fine di coordinare la norma con le nuove disposizioni, ha previsto l'esonero dell'erede che chiede il fallimento del defunto dall'obbligo di depositare in tribunale la documentazione contabile e fiscale, nonché l'elenco nominativo dei creditori e la relazione sullo stato estimativo delle sue attività (come prevedono i nuovi artt. 14 e 16, secondo comma, n. 3, L.F.).

2.2.2. Il presupposto oggettivo: lo stato di insolvenza. – L'art. 5 della L.F. dispone: «L'imprenditore che si trova in stato di insolvenza è dichiarato fallito. Lo stato di insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrano che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni».

Tale norma riveste una duplice importanza in quanto da un lato precisa cos'è lo stato di insolvenza e dall'altro indica come esso si manifesta.

Lo stato di insolvenza non deve confondersi col mero inadempimento.

L’inadempimento consiste nella mancata esatta prestazione di ciò che era dovuto e si riferisce sempre e soltanto ad una singola e determinata obbligazione. L'inadempimento, oltre che dalla impossibilità per il debitore di adempiere, può anche dipendere da altre cause (es. erronea credenza di nulla dovere; esistenza di eccezioni che il debitore in buona fede possa ritenere fondate etc.).

Su un piano nettamente diverso si pone, invece, l'insolvenza, la quale:

- si riferisce non ad una singola obbligazione, bensì a tutta la situazione finanziaria del debitore;

- non consiste necessariamente in una mancata prestazione.

E' invero insolvente non soltanto chi non può pagare per l’intero tutti i suoi creditori, ma anche l’imprenditore che:

a) può pagare tutti i debiti, ma in ritardo cronico ed abnorme rispetto alle normali scadenze;

b) può pagare tutti i debiti, ma con mezzi anomali o non normali, quali la datio in solutum, la “svendita” ad un prezzo vile dei suoi beni, ovvero la vendita dei beni aziendali: in tali ipotesi l’imprenditore non può dirsi inadempiente, ma è senz’altro insolvente.

Insolvente è, dunque, l'imprenditore che non può adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni o perché non ha più i mezzi per effettuare i pagamenti ovvero perché può pagare solo con mezzi anormali (sotto il profilo cronologico o delle modalità di estinzione del debito). L’insolvenza presuppone inevitabilmente una crisi di liquidità dell’imprenditore ed è pertanto un fenomeno finanziario e non nrcrssariamente patrimoniale.

In sintesi, l’insolvenza non deve confondersi con l’inadempimento, posto che l’imprenditore può essere insolvente ma non inadempiente (es. paga i propri debiti svendendo le proprie merci ad un prezzo vile), ovvero può essere inadempiente ma non insolvente (es. non paga un proprio fornitore perché ritiene che la merce fornita fosse difettosa).

E’ peraltro vero che la modalità più frequente di manifestazione dell’insolevenza è data da reiterati inadempimenti, che oggettivamente costituiscono un grave e serio indizio delle difficoltà finanziarie dell'imprenditore.

Di notevole importanza pratica in merito alla portata e alla rilevanza dello stato di insolvenza è la novità introdotta dalla riforma fallimentare nell'art. 15, ultimo comma, L.F., il quale prevede che il fallimento non si possa dichiarare quando «l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell'istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a euro venticinquemila». In pratica, il legislatore ha fissato una soglia di valore predeterminato e periodicamente aggiornabile relativo all'esposizione debitoria, cioè ai debiti scaduti e non pagati, al di sotto della quale il fallimento dell'impresa non può essere dichiarato.

2.3. La dichiarazione di fallimento. – Competente alla dichiarazione di fallimento è il tribunale fallimentare del luogo ove l'imprenditore ha la sede principale dell'impresa (art. 9, primo comma, L.F.).

Per sede principale dell'impresa si intende il luogo in cui è posto il centro degli affari ad essa inerenti e cioè la località dalla quale l'attività è diretta: tale località non deve necessariamente coincidere con il luogo in cui si trova l'azienda o lo stabilimento, essendo rilevante soltanto il luogo da cui provengono le direttive per l'attività dell'impresa, in cui l'imprenditore svolge la sua prevalente attività direttiva ed amministrativa, trattando gli affari inerenti all'impresa, raccogliendo, coordinando ed organizzando i diversi fattori della produzione. In ogni caso ha rilievo la sede effettiva dell'impresa, ovvero quella dove di fatto l'impresa è esercitata, anche se tale sede non coincide con quella dichiarata.

Il secondo comma dell'art. 9 L.F., introdotto dalla riforma, ha precisato che il «il trasferimento della sede intervenuto nell'anno antecedente all'esercizio dell'iniziativa per la dichiarazione di fallimento non rileva ai fini della competenza».

In questo modo è sancito normativamente il principio, già affermato più volte dalla giurisprudenza, dell'irrilevanza del cambiamento della sede effettuato dall'imprenditore nell'imminenza della dichiarazione di fallimento, rimanendo radicata la competenza territoriale del tribunale della sede di provenienza. Lo stesso principio vale nel caso in cui l'imprenditore abbia trasferito la sede dopo il deposito del ricorso per la dichiarazione di fallimento.

2.4. Gli organi del fallimento (artt. 23 - 41 L.F.). – Con la dichiarazione di fallimento si apre la procedura concorsuale, che si svolge attraverso una serie complessa di atti ed operazioni demandati a quattro organi:

- il tribunale fallimentare;

- il gudice delegato;

- il curatore fallimentare;

- il comitato dei creditori.

2.4.1. Il tribunale fallimentare emette la sentenza dichiarativa di fallimento e sovrintende su tutta la procedura fallimentare; spetta in particolare al tribunale:

a) nominare (e eventualmente revocare e sostituire) il giudice delegato e il curatore;

b) decidere le controversie relative alla procedura che non siano di competenza del giudice delegato;

c) decidere sui reclami avverso i decreti del giudice delegato;

d) chiedere informazioni, chiarimenti e indicazioni agli altri organi del fallimento.

2.4.2. Il giudice delegato ha un generale potere-dovere di controllo e vigilanza sulla regolarità della procedura.

In particolare, le funzioni più significative rimesse al giudice delegato sono le seguenti:

a) riferire al tribunale fallimentare su ogni questione su cui deve pronunziarsi il tribunale medesimo;

b) convocare il curatore e i comitato dei creditori nelle ipotesi previste dalla L.F.;

c) su proposta del curatore, liquidare i compensi e disporre l’eventuale revoca dei professionisti (avvocati; ingegneri; consulenti, etc…) che abbiano prestato la propria opera nell’interesse della procedura;

d) provvedere sui reclami proposti contro gli atti del curatore e del comitato dei creditori;

e) autorizzare il curatore ad agire o resistere in giudizio nell’interesse della procedura;

f) accertare il passivo fallimentare e gli eventuali diritti reali e personali vantati dai terzi nei confronti dell’imprenditore fallito;

g) nominare il comitato dei creditori;

h) su proposta del curatore, autorizzare l’esercizio provvisorio dell’impresa, l’affitto d’azienda o di un ramo di essa;

i) approvare il piano di liquidazione redatto dal curatore e ordinare il riparto finale delle somme ai creditori.

2.4.3. Il curatore è l’organo della procedura – nominato dal tribunale fallimentare nella sentenza che dichiara il fallimento – cui spetta l’amministrazione dei beni del fallito sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori. I requisiti per la nomina a curatore sono elencati dal’art. 28 L.F.

Il curatore ha la custodia dei beni del fallito e ne cura la liquidazione al fine di assicurare ai creditori il proporzionale soddisfacimento dei loro crediti nel rispetto del principio di parità di trattamento.

La riforma del 2006 ha valorizzato il ruolo del curatore accentuando il dialogo ed il flusso informativo tra questi e il comitato dei creditori in relazione alle scelte di amministrazione e monetizzazione del patrimonio del fallito.

In maggior dettaglio, il curatore ha i seguenti poteri-doveri:

a) appone i sigilli sui beni del fallito;

b) redige l’inventario dei beni del fallito;

c) entro 60 giorni dalla sentenza di fallimento, redige una relazione sulle cause del dissesto e sulla condotta dell’imprenditore fallito;

d) entro 60 giorni dalla redazione dell’inventario, predispone il programma di liquidazione dei beni del fallito, in cui si pronuncia anche sull’eventuale opportunità dell’esercizio provvisorio dell’impresa, sulle azioni giudiziarie (revocatorie e di altra natura) che ritiene utile proporre nell’interesse della procedura (art. 104-ter L.F.);

d) compie gli atti di ordinaria amministrazione dei beni del fallito e quelli di straordinaria amministrazione se autorizzato dal comitato dei creditori e dal giudice delegato (v. art. 35 L.F.);

e) svolge periodicamente una relazione riepilogativa delle attività svolte a beneficio del giudice delegato e del comitato di creditori;

f) tiene un registro quotidiano (vidimato da almeno un membro del comitato dei creditori) in cui annota le operazioni compiute;

g) esamina le domande di ammissione al passivo depositate dai creditori e redige il progetto di stato passivo;

h) presenzia e interviene alle udienze di verifica del passivo;

i) procede alla vendita dei beni del fallito depositando le somme riscosse a qualunque titolo su un conto corrente bancario intestato alla procedura;

l) presenta il rendiconto della gestione dopo aver terminato la liquidazione dell’attivo.

2.4.4. Il comitato dei creditori è un organo collegiale, composto da 3 o 5 membri che rappresentino in modo equlibrato qualità e quantità dei crediti. Il comitato è nominato dal giudice delegato sentiti il curatore e i creditori che nella domanda di ammissione al passivo hanno dato la propria disponibilità ad assumere l’incarico o hanno segnalato altri nominativi aventi i prescritti requisiti.

Il comitato decide a maggioranza per teste e deve succintamente motivare le proprie decisioni.

Il comitato, il cui ruolo è stato valorizzato dalla riforma del 2006, svolge funzioni gestorie, consultive e di controllo.

A) Funzioni gestorie:

- presta il proprio consenso (vincolante) sulla decisione del giudice delegato di continuare provvisoriamente l’esercizio dell’impresa e/o di affittare l’azienda o un ramo di essa;

- presta il proprio consenso (vincolante) per l’approvazione del programma di liquidazione;

- autorizza gli atti di straordinaria amministrazione che devono essere compiuti dal curatore;

- autorizza l’azione di responsabilità nei confronti del curatore revocato;

- autorizza il curatore a subentare nei contratti pendenti in luogo del fallito;

- interrompe l’esercizio provvisorio dell’impresa.

B) Funzioni consultive:

Il comitato deve essere sentito in funzione consultiva (non vincolante) nelle ipotesi previste dalla legge (cfr. artt. 37; 72-ter; 102; 104-ter; 110; 119; 125; 143 L.F.) e ogniqualvolta il tribunale o il giudice delegato lo ritengano opportuno.

C) Funzioni di controllo:

Il comitato e i suoi singoli membri possono ispezionare le scritture contabili e i documenti del fallimento nonché chiedere notizie o chiarimenti al curatore o al fallito.

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