Thursday, November 09, 2006

L'amministrazione straordinaria della grandi imprese in crisi

5. L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (D.LGS. n. 270/1999 e D.L. n. 347/2003)

5.1. Nozione. – Si tratta di una procedura che si applica ad imprese e a gruppi di imprese di grandi dimensioni aventi i requisiti di cui all’art. 2 D.LGS. n. 270/1999 ed all’art. 1 D.L. n. 347/2003 e che ha come finalità il mantenimento della continuità dell’attività dell’impresa in dissesto e la tutela dei residui valori tecnici, commerciali, produttivi ed occupazionali (negli ultimi anni a tale procedura sono stati ammessi, tra gli altri, il Gruppo Parmalat e la compagnia aerea Volare spa).

5.2. Presupposti. – L’istituto si applica alle imprese commerciali non soggette a l.c.a. che abbiano congiuntamente i seguenti requisiti:

a) almeno 200 lavoratori subordinati nell’ultimo anno;

b) ammontare dei debiti non inferiore a 2/3 sia del totale dell’attivo dello stato patrimoniale sia dei ricavi delle vendite e prestazioni dell’ultimo esercizio;

c) sussistenza di effettive prospettive di recupero dell’equilibrio economico-finanziario.

5.3. Procedura. – Ha carattere giudiziario e si articola in più fasi:

a) istanza da parte dell’imprenditore;

b) verifica dei requisti ed accertamento dello stato di insolvenza da parte del tribunale fallimentare;

c) emissione della sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza da parte del tribunale fallimentare; con tale provvedimento il tribunale nomina altresì il giudice delegato ed il commissario giudiziale e provvede in ordine alla gestione dell’impresa, lasciandola all’imprenditore overo affidandola al commissario;

d) il commissario analizza la situazione aziendale, redige una relazione sulla medesima e sulle cause del dissesto e si pronuncia sulla sussistenza di un’effettiva possibilità di recupero dell’impresa;

e) in una seconda fase il tribunale fallimentare valuta se sussistono possibilità di recupero e in caso positivo dichiara l’apertura della procedura; in caso contrario dichiara il fallimento dell’impresa.

Se l’impresa è ammessa alla procedura, il commissario giudiziale deve perseguire il risultato di riportare l’impresa in una situazione di equlibrio economico optando per una delle seguenti alternative (art. 27 D.LGS. 270/1999):

- cessione degli assets aziendali sulla base di un programma di prosecuzione della gestione annuale;

- ristrutturazione economica dell’impresa sulla base di un programma di risanamento biennale.

A seconda del caso concreto, la procedura può pertanto incanalarsi verso due strade e finalità alternative:

a) liquidatoria, finalizzata prevalentemente alla soddisfazione dei creditori;

b) conservativa, finalizzata prevalentemente alla ristrutturazione aziendale ed al ritorno in bonis dell’impresa.

La liquidazione coatta amministrativa

4. La liquidazione coatta amministrativa (l.c.a) (artt. 194-215 L.F. e varie leggi speciali).

4.1. Nozione. – Si tratta di una procedura speciale a cui sono soggette particolari categorie di imprese operanti in settori che coinvolgono interessi pubblicistici e il cui dissesto ha notevoli ripercussioni di portata generale.

A titolo esemplificativo, sono assoggettate a liquidazione coatta amministrativa:

a) le imprese assicurative;

b) le società cooperative;

c) le imprese bancarie;

d) le società fiduciarie e di revisione;

e) le società di intermediazione mobiliare e le imprese di investimento.

La l.c.a., che ha finalità liquidatoria, comporta la sostituzione di un ufficio pubblico (di natura amministrativa e non giudiziario) all’imprenditore nel potere gestorio al fine della liquidazione dell’impresa.

4.2. Rapporti col fallimento. – Regola generale è che le imprese soggette a l.c.a. sono escluse dalla soggezione a fallimento. Vi sono tuttavia imprese (tra cui le società cooperative) che sono soggette ad entrambe le procedure concorsuali secondo un principio di prevenzione (cfr. art. 2545-terdecies cod. civ.).

4.3. I presupposti. – Caratteristica della l.c.a. è la molteplicità dei presupposti che possono darvi luogo; schematicamente:

a) insolvenza;

b) irregolarità nella gestione e/o nel funzionamento dell’impresa;

c) motivi di pubblico interesse che, a giudizio degli organi governativi, suggeriscono la soppressione dell’impresa.

4.4. La procedura. – La procedura di l.c.a. è caratterizzata dall’intervento sia del tribunale fallimentare sia dell’autorità amministrativa secondo il seguente schema.

Sono di competenza dell’autorità amministrativa:

a) il provvedimento (decreto pubblicato nella Gazzetta Ufficiale) di messa in liquidazione e di nomina del commissario liquidatore;

b) la gestione e la liquidazione dell’impresa, che sono affidate al commissario sotto la vigilanza dell’autorità amministrativa.

Spettano invece al Tribunale Fallimentare:

c) l’accertamento dello stato di insolvenza (che può essere anteriore o successivo al decreto di l.c.a.);

d) la decisione sulle impugnazioni relative allo stato passivo e sull’eventuale concordato (v. art. 214 L.F.).

il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione

3. Il concordato preventivo (artt. 160-186 L.F.)

3.1. Nozione. – Il concordato preventivo è uno strumento che la legge fallimentare offre all’imprenditore per evitare il fallimento ed i connessi effetti negativi (cessazione dell’attività di impresa; spossessamento dei beni; effetti personali, etc…).

Elemento essenziale del concordato (da cui mutua il nome) è l’accordo fra imprenditore e creditori circa le modalità con cui i secondi dovranno essere soddisfatti.

3.2. Condizioni per l’ammissione alla procedura. – La procedura in esame è ammissibile solo su istanza dell’imprenditore al tribunale fallimentare e ove ricorrano alcuni presupposti oggettivi e soggettivi (at. 160 L.F.).

a) Presupposti soggettivi:

- qualità di imprenditore commerciale non piccolo;

- sussistenza dello stato di crisi dell’imprenditore: non necessariamente insolvenza; può trattarsi anche di un’ipotesi di difficoltà finanziaria e/o crisi di liquidità temporanea e non irreversibile; il legislatore consente quindi anche all’imprenditore che si trovi in mera difficoltà, ancorché non sia insolvente, di avviare un processo giudiziale di risanamento.

b) Sotto il profilo oggettivo è necessario che l’imprenditore proponga ai creditori un piano di risanamento della propria esposizione debitoria alternativamente attraverso:

- la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo o altre operazioni straordinarie, compresa anche l’attribuzione ai creditori di azioni, obbligazioni convertibili, strumenti finanziari o titoli di debito;

- l’attribuzione delle attività dell’imprenditore che formula la proposta di concordato ad un assuntore (che può essere alternativamente: uno o più creditori; un terzo; una società partecipata da uno o più creditori); tale piano di risanamento prevede in sostanza che l’imprenditore in crisi ceda la propria azienda o un ramo di essa all’assuntore (una sorta di “garante” della procedura), il quale dovrebbe curarne l’efficiente gestione e pagare i creditori con gli utili derivanti dalla gestione. In alternativa, l’art. 160 n. 2 L.F. prevede che la funzione di assuntore del concordato possa essere ricoperta da una società costituita ad hoc nel corso della procedura.

Si deve comunque rilevare che le previsioni legislative sono alquanto generiche e incomplete; saranno quindi l’autonomia privata e la prassi (aziendale e giurisprudenziale) a tipizzare i contenuti dei piani di risanamento.

3.4. Gli effetti dell’ammissione al concordato. – Una delle differenze più significative tra concordato e fallimento (e che rendono la procedura in esame senz’altro più appetibile rispetto al fallimento) e che l’imprenditore conserva l’amministrazione dei suoi beni e l’esercizio dell’impresa, sebbene sotto la vigilanza del commissario giudiziale (art. 167, primo comma, L.F.).

Per il compimento di atti di particolare rilievo (stipula di mutui; transazioni; vendita di immobili; concessioni di pegno e ipoteche; rilascio di fideiussioni; rinunzie alle liti; atti di ricognizione di diritti di terzi; cancellazione di ipoteche; restituzione di pegni; accettazioni di eredità e donazioni) è peraltro prevista l’autorizzazione scritta del gudice delegato, pena l’inefficacia dei medesimi rispetto ai creditori anteriori al concordato.

Per quanto riguarda la posizione dei creditori, gli effetti del concordato sono in parte analoghi a quelli del fallimento (art. 168, L.F.); si verifica cioè una sorte di “congelamento” della posizione dell’imprenditore ammesso al concordato allo scopo di consentire sia il risanamento dell’impresa, sia la soddisfazione dei creditori secondo una logica concorsuale:

a) i creditori in forza di un titolo anteriore al decreto di ammissione alla procedura non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali;

b) restano sospese le prescrizioni e non si verificano le decadenze;

c) i creditori chirografari possono acquistare diritti di prelazione, ma solo previa autorizzazione scritta del giudice delegato;

d) viene sospeso il corso degli interessi (convenzionali o legali) sui debiti pecuniari.

3.5. La procedura. – Il concordato si articola nelle seguenti fasi:

a) domanda dell’imprenditore di ammissione al tribunale fallimentare con allegazione della prescritta documentazione;

b) decreto del tribunale che, previa verifica della menzionata documentazione e dei requisiti, ammette l’imprenditore alla procedura, nomina il giudice delegato e il commissario giudiziale e ordina la convocazione dei creditori;

c) adunanza e votazione dei creditori;

d) giudizio di omologazione da parte del tribunale fallimentare ed emissione della sentenza di omologa;

e) attuazione del concordato nelle specifiche modalità previste dal piano presentato dall’imprenditore.

Il commissario giudiziale riveste l’importante e delicata funzione di vigilare sull’attività dell’imprenditore e sul rispetto del piano di risanamento; il commissario ha altresì il potere-dovere di consultare in qualsiasi momento tutti i libri e le scritture contabili dell’impresa (v. art. 170 L.F.).

Il commissario – che ha natura di pubblico uffiiciale – è inoltre “protagonista” nella prima fase della procedura, svolgendo compiti di controllo e di informazione:

Più in particolare, in seguito al decreto di ammissione alla procedura:

a) verifica le scritture contabili e redige l’elenco dei debiti e dei crediti;

b) comunica ai creditori la data dell’adunanza e il contenuto del piano proposto dall’imprenditore;

c) redige l’inventario del patrimonio dell’imprenditore;

d) redige una relazione sulle cause del dissesto dell’impresa e sulla condotta dell’imprenditore ed esprime una valutazione sul piano di risanamento proposto in sede di ricorso.

3.6. Gli accordi di ristrutturazione (art. 182-bis L.F.). – Una novità interessante introdotta dal D.L. 35/2005 è costituita dagli accordi di ristrutturazione, una particolare modalità di attuazione del concordato preventivo. Si tratta di accordi stragiudiziali tra imprenditore e parte dei creditori (almeno il 60%) suffragata dalla relazione di un esperto (scelto dall’imprenditore) sulla convenienza e fattibilità degli accordi medesimi.

Gli accordi in esame devono essere analiticamente indicati dall’imprenditore che domanda l’ammissione al concordato e sono soggetti a pubblicazione nel registro delle imprese.

3.7. Risoluzione e annullamento del concordato. – Il concordato può essere:

- risolto, in caso di inadempimento da parte dell’imprenditore degli obblighi assunti;

- annullato, in caso di dolosa esagerazione del passivo o sottrazione o dissimulazione dell’attivo; in entrambi i casi l’imprenditore viene dichiarato fallito.

Le fasi del fallimento

2.6. Le fasi della procedura. – La procedura fallimentare si articola nei seguenti passaggi essenziali:

a) custodia ed amministrazione del patrimonio del fallito (artt. 84-91 L.F.);

b) accertamento del passivo e dei diritti mobiliari di terzi (artt. 92-103 L.F.);

c) liquidazione dell’attivo (artt. 104-109 L.F.);

d) riparto dell’attivo tra i creditori (artt. 110-117 L.F.).

a) La custodia e l’amministrazione dei beni del fallito spettano al curatore, il quale mette i sigilli, prende in consegna le scritture contabili, il denaro e i titoli di credito.

Successivamente il curatore redige l’inventario e l’elenco dei creditori risultanti dalle scritture contabili.

b) L’accertamento del passivo è la fase centrale della procedura fallimentare in cui i creditori del fallito, che hanno notizia del fallimento dal curatore e/o dalla pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento, devono presentare una domanda al tribunale fallimentare (istanza di ammissione al passivo; art. 93 L.F.) in cui illustrano e documentano la causale e l’ammontare del proprio credito e chiedono di partecipare alla liquidazione dell’attivo.

Il giudice delegato esamina le istanze e si pronuncia in merito, accogliendole o rigettandole. In caso di rigetto il creditore escluso può promuovere un giudizio di opposizione allo stato passvo (at. 98 L.F.) attraverso il quale ottenere il riconoscimento del proprio credito e quindi l’inserimento nello stato passivo.

c) La liquidazione dell’attivo è la fase mirante alla monetizzazione dei beni ricompresi nel patrimonio del fallito e può avvenire con diverse modalità e procedure:

- affitto d’azienda o di un ramo di essa;

- vendita dell’azienda o di un ramo di essa;

- vendita in blocco di beni;

- vendita di singoli beni (mobili o immobili);

- cessione di crediti.

d) Il riparto dell’attivo è la fase finale della procedura in cui le somme di denaro ricavate dalla liqudazione delle attività fallimentari vengono distribuite ai creditori.

Le somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo sono erogate secondo il seguente ordine (art. 111 L.F.):

- pagamento dei crediti prededucibili (spese della procedura; compensi del curatore e dei consulenti della procedura, etc…);

- pagamento dei crediti assistiti da prelazione sulle cose vendute secondo l’ordine assegnato dalla legge (v. artt. 2745-2783 cod. civ.);

- pagamento dei crediti chirografari (ovvero non privilegiati) in proporzione dell’ammontare del credito per cui ciascuno di essi fu ammesso.

Occorre comunque tener presente che nella pratica le somme realizzate dalla liquidazione dell’attivo fallimentare sono quasi sempre di gran lunga inferiori rispetto all’ammontare dei debiti, con la conseguenza che la soddisfazione dei creditori è tendenzialmente sempre parziale (nel caso dei creditori privilegiati), ovvero del tutto irrisoria (nel caso dei creditori chirografari).

2.7. Il fallimento delle società (artt. 146-154 L.F.). Cenni. Gli amministratori e i liquidatori delle società dichiarate fallite sono soggetti ai medesimi obblighi previsti per il fallito dall’art. 49 L.F.

Le azioni di responsabilità contro gli amministratori e gli organi di controllo sono esercitate dal curatore previa autorizzazione del giudice delegato e parere del comitato dei creditori.

In riferimento alle società di persone, la conseguenza più rilevante della dichiarazione di fallimento è che la medesima produce il fallimento anche dei soci illimitatamente responsabili (c.d. fallimento in estensione; art. 147 L.F.)

Viceversa, il fallimento di uno o più soci non produce il fallimento della società (art. 149 L.F.); cfr. anche art. 2288, primo comma, in materia di esclusioen del socio di società di persone.

2.8. La cessazione del fallimento (artt. 118 L.F.). – Il fallimento si chiude nelle seguenti ipotesi:

a) mancata proposizione di domande di ammissione al passivo da parte dei creditori (ipotesi che nella pratica non si verifica mai);

b) soddisfazione di tutti i creditori;

c) ripartizione di tutto l’attivo fallimentare (anche se non tutti i creditori sono stati soddisfatti);

d) insufficienza dell’attivo a soddisfare neppure in parte i creditori concorsuali e a coprire le spese della procedura;

e) concordato fallimentare (artt. 124 –141 L.F.)

2.9. L’esdebitazione (artt. 142-144 L.F.). – Si tratta di un istituto nuovo introdotto dal D.LGS. 5/2006 che consente la liberazione del fallito meritevole dai debiti residui allorquando la procedura si sia chiusa senza l’integrale pagamento di tutti i creditori.

effetti del fallimento

2.5. Gli effetti del fallimento (artt. 42 - 83-bis L.F.). – La sentenza dichiarativa di fallimento produce molteplici effetti che riguardano:

- la posizione del fallito

- l’attività di impresa;

- la posizione dei creditori;

- la posizione dei terzi;

- i rapporti giuridici preesistenti.

A) Effetti nei confronti del fallito:

- il fallito deve consegnare al curatore la propria corrispondenza relativa ai rapporti compresi nel fallimento e deve comunicare al curatore ogni cambiamento di residenza o domicilio (effetti personali; il fallimento incide pertanto sulle libertà costituzionali del fallito);

- il fallito perde il possesso (non la proprietà) dei propri beni, che vengono presi in consegna e custoditi dal curatore;

- il fallito cessa l’esercizio dell’impresa.

B) Effetti sull’attività di impresa:

- il fallimento comporta la cessazione dell’attività di impresa che può essere provvisoriamente proseguita solo previa decisione del giudice delegato e parere favorevole del comitato dei creditori.

C) Effetti nei confronti dei creditori:

- il fallimento è una procedura di liquidazione del patrimonio del fallito caratterizzata dal concorso dei creditori, ovvero dal coinvolgimento di tutti i creditori finalizzato alla soddisfazione dei crediti secondo un principio di parità di trattamento (c.d. par condicio creditorum); pertanto dalla dichiarazione di fallimento nessun creditore può proseguire o iniziare alcuna azione esecutiva individuale (cioè relativa ad un singolo credito) sui beni compresi nel fallimento;

- la dichiarazione di fallimento sospende il corso degli interessi convenzionali o legali.

C) Effetti nei confronti dei terzi:

- nell’attivo fallimentare rientrano non solo i beni appartenenti all’imprenditore al momento della dichiarazione di fallimento, ma anche alcuni beni che l’imprenditore ha ceduto a terzi anteriormente al fallimento e che la legge, ricorrendo determinati rigorosi presupposti, ritiene opportuno “recuperare” al fine di ricomprenderli tra i beni soggetti all’esecuzione concorsuale e destinati a soddisfare i creditori concorsuali.

Lo strumento più diffuso ed efficace per la ricostruzione dell’attivo fallimentare è l’azione revocatoria fallimentare (artt. 67 ss. L.F.), la cui finalità è quella di incrementare il patrimonio dell’imprenditore fallito rendendo inefficaci gli atti di disposizione del proprio patrimonio compiuti dal fallito – prima del fallimento, ma entro un determinato limite temporale – e dai quali è derivato un effetto pregiudizievole per la massa fallimentare.

Più in particolare l’azione revocatoria fallimentare è un’azione giudiziaria (promossa su iniziativa del curatore) il cui effetto tipico è recuperatorio o restitutorio (e non invalidatorio), in quanto rende inefficaci per il fallimento gli atti pregiudizievoli ai creditori compiuti dal fallito e fa quindi rientrare nell’attivo fallimentare beni che sono usciti dal patrimonio del fallito creando un depauperamento del medesimo e conseguente pregiudizio per i creditori[1].

Sono suscettibili di essere revocati gli atti elencati dall’art. 67, primo comma, L.F., il cui tratto comune è quello di essere “anomali” o “anormali” in quanto non riconducibili alla fsiologica attività d’impresa e causa di un pregiudizio al patrimonio del fallito.

L’accoglimento dell’azione revocatoria fallimentare è comunque subordinato alla sussistenza di due presupposti:

a) compimento dell’atto impugnato nel corso dell’ultimo anno o degli ultimi 6 mesi prima della sentenza di fallimento (c.d. “periodo sospetto”);

b) mancata prova da parte del terzo della ignoranza dello stato d’insolvenza dell’imprenditore; la conoscenza dello stato di insolvenza è quindi presunta dal legislatore, cosicché spetta al terzo fornire la difficile prova che al momento in cui ha ha stipulato l’atto pregiudizievole con l’imprenditore poi fallito non era a conoscenza dello stato di insolvenza di quest’ultimo.

L’art. 67, secondo comma, L.F. disciplina invece la revocatoria fallimentare degli atti “normali”, sottoposta a requisiti più rigorosi in quanto spetta al curatore provare che il terzo conosceva lo stato di insolevenza del debitore: in tal caso si presume quindi la “buona fede” del terzo.

L’art. 67, terzo comma, L.F. elenca gli atti esclusi dalla revocatoria fallimentare in quanto ritenuti dal legislatore fisiologici nell’attività d’impresa.

Il curatore ha altresì lo strumento dell’azione revocatoria ordinaria (dai presupposti meno rigorosi) disciplinata dagi artt. 2901 ss. cod. civ. (art. 66 L.F.).

D) Effetti sui contratti in corso di esecuzione

Il fallimento non determina di per sé la risoluzione automatica dei contratti in corso di esecuzione dal fallito.

Il principio generale (dettato dall’art. 72 L.F.) è che spetta al curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, decidere se subentrare ai contratti pendenti in luogo del fallito assumendo tutti i relativi diritti ed obblighi, ovvero sciogliersi dal contratto.

Gli artt. 72-bis ss. L.F. disciplinano gli effetti della dichiarazione di fallimento su alcuni contratti tipici.



[1] Per capire l’importanza pratica dell’azione revocatoria fallimentare, si può prospettare a titolo esemplificativo il caso in cui un imprenditore che si trova in stato di insovenza (ma ancora non è stato dichiarato fallito), allo scopo di tacitare un proprio creditore che minaccia di promuovere istanza di fallimento nei suoi confronti, vende la propria barca di lusso a quest’ultimo ad un corrispettivo di € 100.000,00 a fronte di un prezzo di mercato pari ad € 500.000,00.

E’ evidente che il creditore che ha acquistato la barca ha “fatto un affare”, laddove il fallito si è nettamente impoverito con pregiudizio per la massa attiva fallimentare ed i creditori concorsuali. Esperendo l’azione revocatoria, il curatore conseguirà la restituzione della barca alla massa attiva; la barca potrà quindi essere venduta a terzi al giusto corrispettivo, il quale andrà ad incrementare l’attivo fallimentare a beneficio di tutti i creditori concorsuali.

Thursday, November 02, 2006

presupposti e organi

2. Il fallimento (artt. 1 – 156 L.F.). – Il fallimento è una procedura giudiziaria che si svolge nanti il tribunale del luogo ove ha sede l’impresa, il quale, in presenza di determinati presupposti, dichiara con sentenza il fallimento dell’impresa e apre la procedura.

2.1. I presupposti del fallimento (artt. 1 – 15 L.F.) – I presupposti della dichiarazione di fallimento sono sostanzialmente due:

a) la natura di imprenditore commerciale (privato e non piccolo) del debitore (presupposto soggettivo);

b) lo stato di insolvenza (presupposto oggettivo).

2.1.1. Il presupposto soggettivo. – A norma dell'art. 1, primo comma, L.F., lasciato pressoché inalterato dalla riforma, «sono soggetti alle disposizioni sul fallimento gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori». Da tale disposizione si desume che può essere assoggettato al fallimento solo l'imprenditore commerciale non piccolo e privato.

La riforma del 2006 ha ampliato il numero dei soggetti esonerati dalla assoggettabilità al fallimento, ridefinendo l'ambito soggettivo di applicazione dell'istituto: nell’art. 1, secondo comma, il legislatore ha fornito una nuova definizione di piccolo imprenditore (cfr. art. 2083 cod. civ.), fondata su parametri quantitativi, ovvero su valori patrimoniali, finanziari e reddittuali, adeguati all'attuale realtà economica ed imprenditoriale e che rispecchiano l'effettiva consistenza delle dimensioni dell'impresa e del patrimonio aziendale.

L'art. 1, secondo comma, L.F., novellato dal D.LGS. n. 5/2006, esonera dal fallimento l'imprenditore che, alternativamente:

a) ha effettuato investimenti aziendali per un capitale inferiore od uguale a trecentomila euro (si presume che tale dato debba risultare dall'attivo di bilancio al momento dell'eventuale dichiarazione di fallimento, sebbene esso non sia sempre di facile individuazione nelle società di persone e nelle imprese individuali);

b) ha realizzato ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo non superiore a duecentomila euro.

A partire dal 16 luglio 2006 (data di entrata in vigore del decreto di riforma), il soggetto che rientra in almeno uno dei due parametri indicati è dunque qualificabile, ai fini della applicazione della legge fallimentare, piccolo imprenditore e non è assoggettabile al fallimento o ad altra procedura concorsuale.

E' stata inoltre risolta la controversa questione della fallibilità delle piccole società commerciali, non più assoggettate al fallimento. Infatti, nella versione anteriore alla riforma, l'art. 1 specificava al secondo comma che in nessun caso potevano essere considerati piccoli imprenditori le società commerciali, includendole pertanto tra i soggetti fallibili. Il legislatore del 2006 ha eliminato tale inciso ed ha chiarito che la nozione di piccolo imprenditore coinvolge tutti «gli esercenti un'attività commerciale in forma individuale o collettiva».

Ancora, sono sottratti al fallimento:

- gli enti pubblici economici (art. 2093 cod. civ.);

- gli imprenditori agricoli (art. 2135 cod. civ.);

Gli articoli 10 e 11 L.F. stabiliscono che, entro l'anno dalla morte o dal ritiro dal commercio, l'imprenditore può ugualmente essere dichiarato fallito quando il presupposto dell'insolvenza è determinato durante l'esercizio dell'impresa.

Si tratta di due ipotesi distinte:

A) Imprenditore cessato

L'art. 10 L.F., modificato dalla riforma, prevede che «gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo».

La riforma del 2006 ha dunque dato soluzione ai problemi sorti in conseguenza della deficitaria formulazione del '42, la quale parlava genericamente di «cessazione dell'esercizio dell'impresa» e non considerava la cancellazione delle società.

Il secondo comma dell'art. 10 attribuisce tuttavia all'imprenditore individuale ed alle società che sono state cancellate d'ufficio (vale a dire quando, ai sensi dell'art. 2490, sesto comma, cod. civ., per oltre tre anni consecutivi non hanno depositato il bilancio annuale di liquidazione, nonché nei casi di cancellazione d'ufficio previsti dagli artt. 2 e 3 del D.P.R. 23 luglio 2004, n. 247: per l’imprenditore individuale: morte e irreperibilità dell’imprenditore; mancato compimento di atti di gestione per tre anni consecutivi; per l’imprenditore società di persone: irreperibilità presso la sede sociale; mancato compimento di atti di gestione per tre anni consecutivi; mancanza del cosice fiscale; mancata ricostituzione della pluralità dei soci entro 6 mesi; scadenza del termine di durata in assenza di proroga tacita) la possibilità di dimostrare il momento dell'effettiva cessazione dell'attività, qualora essa si sia verificata anteriormente alla cancellazione; pertanto se l’imprenditore fornisce tale prova, il termine di cui all’art. 10 L.F. decorre dalla data di effettiva cessazione e non dalla data della formale cancellazione.

B) Imprenditore defunto

L’imprenditore individuale può essere dichiarato fallito anche dopo la propria morte. L’effetto fondamentale del fallimento post-mortem è la separazione del patrimonio del defunto da quello dell'erede e la sua destinazione alla soddisfazione prioritaria dei creditori ereditari. La riforma ha lasciato sostanzialmente inalterata la disciplina del fallimento dell'imprenditore defunto (art. 11 L.F.). Tuttavia, al fine di coordinare la norma con le nuove disposizioni, ha previsto l'esonero dell'erede che chiede il fallimento del defunto dall'obbligo di depositare in tribunale la documentazione contabile e fiscale, nonché l'elenco nominativo dei creditori e la relazione sullo stato estimativo delle sue attività (come prevedono i nuovi artt. 14 e 16, secondo comma, n. 3, L.F.).

2.2.2. Il presupposto oggettivo: lo stato di insolvenza. – L'art. 5 della L.F. dispone: «L'imprenditore che si trova in stato di insolvenza è dichiarato fallito. Lo stato di insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrano che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni».

Tale norma riveste una duplice importanza in quanto da un lato precisa cos'è lo stato di insolvenza e dall'altro indica come esso si manifesta.

Lo stato di insolvenza non deve confondersi col mero inadempimento.

L’inadempimento consiste nella mancata esatta prestazione di ciò che era dovuto e si riferisce sempre e soltanto ad una singola e determinata obbligazione. L'inadempimento, oltre che dalla impossibilità per il debitore di adempiere, può anche dipendere da altre cause (es. erronea credenza di nulla dovere; esistenza di eccezioni che il debitore in buona fede possa ritenere fondate etc.).

Su un piano nettamente diverso si pone, invece, l'insolvenza, la quale:

- si riferisce non ad una singola obbligazione, bensì a tutta la situazione finanziaria del debitore;

- non consiste necessariamente in una mancata prestazione.

E' invero insolvente non soltanto chi non può pagare per l’intero tutti i suoi creditori, ma anche l’imprenditore che:

a) può pagare tutti i debiti, ma in ritardo cronico ed abnorme rispetto alle normali scadenze;

b) può pagare tutti i debiti, ma con mezzi anomali o non normali, quali la datio in solutum, la “svendita” ad un prezzo vile dei suoi beni, ovvero la vendita dei beni aziendali: in tali ipotesi l’imprenditore non può dirsi inadempiente, ma è senz’altro insolvente.

Insolvente è, dunque, l'imprenditore che non può adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni o perché non ha più i mezzi per effettuare i pagamenti ovvero perché può pagare solo con mezzi anormali (sotto il profilo cronologico o delle modalità di estinzione del debito). L’insolvenza presuppone inevitabilmente una crisi di liquidità dell’imprenditore ed è pertanto un fenomeno finanziario e non nrcrssariamente patrimoniale.

In sintesi, l’insolvenza non deve confondersi con l’inadempimento, posto che l’imprenditore può essere insolvente ma non inadempiente (es. paga i propri debiti svendendo le proprie merci ad un prezzo vile), ovvero può essere inadempiente ma non insolvente (es. non paga un proprio fornitore perché ritiene che la merce fornita fosse difettosa).

E’ peraltro vero che la modalità più frequente di manifestazione dell’insolevenza è data da reiterati inadempimenti, che oggettivamente costituiscono un grave e serio indizio delle difficoltà finanziarie dell'imprenditore.

Di notevole importanza pratica in merito alla portata e alla rilevanza dello stato di insolvenza è la novità introdotta dalla riforma fallimentare nell'art. 15, ultimo comma, L.F., il quale prevede che il fallimento non si possa dichiarare quando «l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell'istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a euro venticinquemila». In pratica, il legislatore ha fissato una soglia di valore predeterminato e periodicamente aggiornabile relativo all'esposizione debitoria, cioè ai debiti scaduti e non pagati, al di sotto della quale il fallimento dell'impresa non può essere dichiarato.

2.3. La dichiarazione di fallimento. – Competente alla dichiarazione di fallimento è il tribunale fallimentare del luogo ove l'imprenditore ha la sede principale dell'impresa (art. 9, primo comma, L.F.).

Per sede principale dell'impresa si intende il luogo in cui è posto il centro degli affari ad essa inerenti e cioè la località dalla quale l'attività è diretta: tale località non deve necessariamente coincidere con il luogo in cui si trova l'azienda o lo stabilimento, essendo rilevante soltanto il luogo da cui provengono le direttive per l'attività dell'impresa, in cui l'imprenditore svolge la sua prevalente attività direttiva ed amministrativa, trattando gli affari inerenti all'impresa, raccogliendo, coordinando ed organizzando i diversi fattori della produzione. In ogni caso ha rilievo la sede effettiva dell'impresa, ovvero quella dove di fatto l'impresa è esercitata, anche se tale sede non coincide con quella dichiarata.

Il secondo comma dell'art. 9 L.F., introdotto dalla riforma, ha precisato che il «il trasferimento della sede intervenuto nell'anno antecedente all'esercizio dell'iniziativa per la dichiarazione di fallimento non rileva ai fini della competenza».

In questo modo è sancito normativamente il principio, già affermato più volte dalla giurisprudenza, dell'irrilevanza del cambiamento della sede effettuato dall'imprenditore nell'imminenza della dichiarazione di fallimento, rimanendo radicata la competenza territoriale del tribunale della sede di provenienza. Lo stesso principio vale nel caso in cui l'imprenditore abbia trasferito la sede dopo il deposito del ricorso per la dichiarazione di fallimento.

2.4. Gli organi del fallimento (artt. 23 - 41 L.F.). – Con la dichiarazione di fallimento si apre la procedura concorsuale, che si svolge attraverso una serie complessa di atti ed operazioni demandati a quattro organi:

- il tribunale fallimentare;

- il gudice delegato;

- il curatore fallimentare;

- il comitato dei creditori.

2.4.1. Il tribunale fallimentare emette la sentenza dichiarativa di fallimento e sovrintende su tutta la procedura fallimentare; spetta in particolare al tribunale:

a) nominare (e eventualmente revocare e sostituire) il giudice delegato e il curatore;

b) decidere le controversie relative alla procedura che non siano di competenza del giudice delegato;

c) decidere sui reclami avverso i decreti del giudice delegato;

d) chiedere informazioni, chiarimenti e indicazioni agli altri organi del fallimento.

2.4.2. Il giudice delegato ha un generale potere-dovere di controllo e vigilanza sulla regolarità della procedura.

In particolare, le funzioni più significative rimesse al giudice delegato sono le seguenti:

a) riferire al tribunale fallimentare su ogni questione su cui deve pronunziarsi il tribunale medesimo;

b) convocare il curatore e i comitato dei creditori nelle ipotesi previste dalla L.F.;

c) su proposta del curatore, liquidare i compensi e disporre l’eventuale revoca dei professionisti (avvocati; ingegneri; consulenti, etc…) che abbiano prestato la propria opera nell’interesse della procedura;

d) provvedere sui reclami proposti contro gli atti del curatore e del comitato dei creditori;

e) autorizzare il curatore ad agire o resistere in giudizio nell’interesse della procedura;

f) accertare il passivo fallimentare e gli eventuali diritti reali e personali vantati dai terzi nei confronti dell’imprenditore fallito;

g) nominare il comitato dei creditori;

h) su proposta del curatore, autorizzare l’esercizio provvisorio dell’impresa, l’affitto d’azienda o di un ramo di essa;

i) approvare il piano di liquidazione redatto dal curatore e ordinare il riparto finale delle somme ai creditori.

2.4.3. Il curatore è l’organo della procedura – nominato dal tribunale fallimentare nella sentenza che dichiara il fallimento – cui spetta l’amministrazione dei beni del fallito sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori. I requisiti per la nomina a curatore sono elencati dal’art. 28 L.F.

Il curatore ha la custodia dei beni del fallito e ne cura la liquidazione al fine di assicurare ai creditori il proporzionale soddisfacimento dei loro crediti nel rispetto del principio di parità di trattamento.

La riforma del 2006 ha valorizzato il ruolo del curatore accentuando il dialogo ed il flusso informativo tra questi e il comitato dei creditori in relazione alle scelte di amministrazione e monetizzazione del patrimonio del fallito.

In maggior dettaglio, il curatore ha i seguenti poteri-doveri:

a) appone i sigilli sui beni del fallito;

b) redige l’inventario dei beni del fallito;

c) entro 60 giorni dalla sentenza di fallimento, redige una relazione sulle cause del dissesto e sulla condotta dell’imprenditore fallito;

d) entro 60 giorni dalla redazione dell’inventario, predispone il programma di liquidazione dei beni del fallito, in cui si pronuncia anche sull’eventuale opportunità dell’esercizio provvisorio dell’impresa, sulle azioni giudiziarie (revocatorie e di altra natura) che ritiene utile proporre nell’interesse della procedura (art. 104-ter L.F.);

d) compie gli atti di ordinaria amministrazione dei beni del fallito e quelli di straordinaria amministrazione se autorizzato dal comitato dei creditori e dal giudice delegato (v. art. 35 L.F.);

e) svolge periodicamente una relazione riepilogativa delle attività svolte a beneficio del giudice delegato e del comitato di creditori;

f) tiene un registro quotidiano (vidimato da almeno un membro del comitato dei creditori) in cui annota le operazioni compiute;

g) esamina le domande di ammissione al passivo depositate dai creditori e redige il progetto di stato passivo;

h) presenzia e interviene alle udienze di verifica del passivo;

i) procede alla vendita dei beni del fallito depositando le somme riscosse a qualunque titolo su un conto corrente bancario intestato alla procedura;

l) presenta il rendiconto della gestione dopo aver terminato la liquidazione dell’attivo.

2.4.4. Il comitato dei creditori è un organo collegiale, composto da 3 o 5 membri che rappresentino in modo equlibrato qualità e quantità dei crediti. Il comitato è nominato dal giudice delegato sentiti il curatore e i creditori che nella domanda di ammissione al passivo hanno dato la propria disponibilità ad assumere l’incarico o hanno segnalato altri nominativi aventi i prescritti requisiti.

Il comitato decide a maggioranza per teste e deve succintamente motivare le proprie decisioni.

Il comitato, il cui ruolo è stato valorizzato dalla riforma del 2006, svolge funzioni gestorie, consultive e di controllo.

A) Funzioni gestorie:

- presta il proprio consenso (vincolante) sulla decisione del giudice delegato di continuare provvisoriamente l’esercizio dell’impresa e/o di affittare l’azienda o un ramo di essa;

- presta il proprio consenso (vincolante) per l’approvazione del programma di liquidazione;

- autorizza gli atti di straordinaria amministrazione che devono essere compiuti dal curatore;

- autorizza l’azione di responsabilità nei confronti del curatore revocato;

- autorizza il curatore a subentare nei contratti pendenti in luogo del fallito;

- interrompe l’esercizio provvisorio dell’impresa.

B) Funzioni consultive:

Il comitato deve essere sentito in funzione consultiva (non vincolante) nelle ipotesi previste dalla legge (cfr. artt. 37; 72-ter; 102; 104-ter; 110; 119; 125; 143 L.F.) e ogniqualvolta il tribunale o il giudice delegato lo ritengano opportuno.

C) Funzioni di controllo:

Il comitato e i suoi singoli membri possono ispezionare le scritture contabili e i documenti del fallimento nonché chiedere notizie o chiarimenti al curatore o al fallito.

parte prima

1. Premessa. La crisi dell’impresa commerciale.

La crisi economica e il conseguente dissesto patrimoniale dell’impresa sono eventi che coinvolgono necessariamente un gran numero di creditori, i quali vengono a trovarsi nell’impossibilità di recuperare o di recuperare per l’intero i propri crediti. La crisi dell’impresa può quindi innescare una serie di eventi a catena con grave turbamento per l’ordinato svolgimento della vita economica. I creditori di un imprenditore sono infatti a loro volta in gran parte imprenditori (fornitori, banche, etc…): la mancata realizzazione dei loro crediti può quindi di riflesso provocare la crisi delle loro imprese. Il dissesto delle imprese di maggiori dimesioni solleva inoltre ulteriori problemi anche di carattere sociale fra cui, soprattutto, la tutela dei lavoratori.

La crisi dell’impresa pone quindi delle esigenze peculiari a cui l’ordinamento giuridico ha cercato di dare risposta dettando una disciplina specifica rispetto a quella prevista per il dissesto del comune cittadino o consumatore. In particolare, il legislatore italiano ha operato una profonda distinzione tra crisi dell’imprenditore commerciale medio-grande, da un lato, e crisi dell’imprenditore agricolo e del piccolo imprenditore, dall’altro lato. Mentre infatti ai secondi si applica la disciplina del diritto comune (cioè si applicano le ordinarie norme del diritto privato), per il primo il legislatore ha previsto cinque procedure speciali, defintite concorsuali, finalizzate a gestire il dissesto dell’impresa ed e a temperarne gli effetti negativi tutelando gli interessi dei creditori e, più in generale, del mercato.

Le procedure concorsuali sono:

1) il fallimento;

2) il concordato preventivo;

3) l’amministrazione controllata (abrogata col decreto legislativo n. 5/2006 in quanto non aveva pressoché trovato applicazione);

4) la liquidazione coatta amministrativa;

5) l’amminstrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.

Le prime tre procedure menzionate sono disciplinate nel regio decreto n. 367/1942, il cui testo è stato più volte riformato, da ultimo col decreto legge (D.L.) n. 35/2005 e col decreto legislativo (D.LGS.) n. 5/2006, entrato in vigore il 16 luglio 2006, che ha profondamente riformato la materia. Il regio decreto n. 367/1942 è comunemente definito “Legge Fallimentare” (L.F.).

L’amministrazione straordinaria è stata invece introdotta dal legislatore con la legge n. 95/1979 (più volte riformata); oggi è disciplinata dal D.LGS. n. 270/1999 e dal D.L. n. 347/2003.

Le procedure concorsuali hanno caratteri e finalità diverse:

a) il fallimento è una procedura giudiziaria mirante a disgregare e liquidare il patrimonio aziendale al fine di ripartirne il ricavato tra i creditori;

b) il concordato preventivo è una procedura giudiziaria che non comporta la cessazione immediata dell’esercizio dell’impresa ma che ha comunque tendenzialmente la finalità di liquidare il patrimonio aziendale e ripartirne il ricavato tra i creditori;

c) la liquidazione coatta amministrativa è una procedura di natura amministrativa alternativa al fallimento che si applica solo a particolari categorie di imprese (banche, assicurazioni, etc…) che svolgono attività di particolare rilievo economico e pertanto sono sottoposte a vigilanza governativa; anche tale procedura ha finalità liquidatoria;

d) l’amministrazione straordinaria ha natura mista (giudiziaria ed amministrativa) con finalità di recupero dell’impresa e che si applica solo ad imprese di grandi dimensioni al fine di cercare di evitare o limitare l’impatto sociale ed occupazionale che deriva dalla loro crisi; ha una finalità mista liquidatoria-risanatoria.

avvertenza e premesse

Avvertenza: le dispense hanno carattere sintetico e non esaustivo; lo studio delle procedure concorsuali deve quindi essere integrato con la lettura e la consultazione della legge fallimentare nella versione aggiornata al gennaio 2006.

il presente scritto è stato redatto dall'avv. Fabio Nieddu Arrica, con mere finalità compilative ed al solo fine di adiuvare gli studenti nella ricerca di materiale per lo studio della riforma delle procedure concorsuali

Ne è vietata la commercializzazione.